No, l’8 marzo non è un giorno di festa, ma una giorno di memoria dei diritti

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8 marzo
Medusa, perpetua Ph: Roberto Improta

8 marzo: un giorno che di festivo ha ben poco

Un po’ come l’atavica questione dell’uovo e della gallina, questo giorno, l’8 marzo, deve alla sua esistenza molteplici e nessuna motivazione. Nessuna fabbrica andò in fiamme a New York l’8 marzo del 1908. Le donne immigrate italiane morirono in una fabbrica nel 1911, ma era il 25 marzo. Non a New York, ma nell’Est Europa.
Neppure la leggenda della repressione di una manifestazione sindacale di operaie tessili è il fondamento di questa giornata. Questa giornata nacque negli Usa, nel 1909, dall’allora Partito socialista per invitare le donne a una manifestazione per il diritto al voto femminile. Quelle che siano o no le origini di questa giornata, ciò che conta è cosa ne è stato fatto di una giornata simbolo. Simbolo sì, ma di cosa? L’8 marzo, Women’s day, così denominato a livello internazionale, è una giornata internazionale per i diritti delle donne istituita di recente. Le Nazioni Unite scelsero questa giornata soltanto tra il 1975 e il ’77.

Un giorno per parlare, per fare il punto, per raccontare dei diritti delle donne. Tuttavia, negli anni, il problema si è nascosto sotto al tappeto. La mimosa scelta da Teresa Mattei, Rita Montagnana e Teresa Noce è divenuto uno spettro. Quel fiore a basso costo è divenuto il mezzo con il cui polline si è alimentata una vaghezza di sensi. Una giornata di memoria tramutata in una festa, dove l’obiettivo è regalare dei fiori, fare gli auguri. Dare occasione a tante aziende di esaltare le donne, in questa giornata in cui devono essere viziate, coccolate, raccontate come eroine. Ma quando è scaduto il tempo dell’algoritmo dei social, si ritorna a sottopagarle, a non dar loro il posto che meritano. Finanche a negar loro dei diritti. Quel polline, dunque, a lungo termine causa allergia e starnuto dopo starnuto va ricordato, forse nuovamente insegnato, che no, l’8 marzo non è una giornata di festa, ma di memoria.

8 marzo, prima delle mimose, parliamo di diritti

In questo giorno, dovremmo dimenticare i fiori, le carinerie, le cene e, soprattutto, i discorsi in cui si inneggia al potere femminile. Alla trattazione gloriosa delle donne in grandi figure meravigliose. Queste madri della specie umana. Partorienti e generatrici di una potenza atavica: il dono della creazione dell’uomo. Ancora oggi, la donna è questo: la creatrice dell’uomo, la compagna dell’uomo. L’ombra che rende un uomo glorioso, come mamma, come moglie, come assistente. In questo giorno, dovremmo faticare ad ammettere che parlare di donne, di diritti è tanto facile da dimenticare che è di ciò che si tratta questa giornata. Un memorandum di quanto siamo indietro e di quanto non riusciamo a guardarci intorno se non con la lente proiettata sul nostro orto. In ogni dove, ma anche accanto a noi, i diritti delle donne non sono cosa data. Non sono scontati, spesso sono negati, se non addirittura non presenti.

Solo nell’ultimo anno, abbiamo assistito all’inasprimento delle misure di negazione dei diritti delle donne afghane. Esseri umani cancellati, non possono studiare, non possono vivere la vita comune e sociale, non sono libere. Non possono esporre il proprio corpo, devono essere accompagnate da un uomo, essere subordinate a esso. Anni di lotta cancellati, ancora una volta. Masha Amini, in questo anno, ha stravolto l’Iran. La sua morte ha riscosso le masse che oggi hanno un grido: Donne, vita, libertà. Una ragazza morta perché non indossava il velo, a lei se ne sono aggiunte troppe altre. In Ucraina, le donne stuprate dal nemico hanno visto negato loro l’aborto. Non solo in terra natia, ma anche nei paesi confinanti. Perché anche in quesi paesi manca il diritto di interruzione della gravidanza. In Africa, invece, molte ragazze sono costrette ad abbandonare gli studi per matrimoni precoci. Altre non hanno accesso a cure ginecologiche e a tamponi, a detergenti, a un’assistenza. In Italia, ancora oggi, si depositano disegni di legge in cui si cerca di limitare la libertà all’aborto. Un Paese, il nostro, che si vanta di essere evoluto, una maschera per nascondere bigottismo, involuzione e chiusura mentale.

8 marzo, come se bastasse un giorno, questo è altri luoghi comuni

Il più grande luogo comune di questa giornata è la finta lotta che si perpetua. L’attenzione alle donne, ai diritti, ai traguardi. Analisi, dati, numeri, fiocchi, coccarde e pacche sulla spalla. Il giorno finisce e si torna a guardare la classifica di serie A, a commentare l’ultima puntata del reality in voga, a guardare le bollette, a inveire contro il Governo. Le aziende tornano a parlare di sé, del fatturato, del bilancio, dell’avanguardia, ma di donne? Cosa si fa per le donne? L’Onu ha dichiarato che ci vorranno almeno tre secoli per colmare il divario tra uomo e donna. Ma perché occorre tanto? Dopo secoli, ci sono ancora milioni di Ifigenia sacrificate sugli altari per vincere guerre. Ci sono milioni di Cassandra inascoltate, il cui potenziale è messo dietro una scrivania, ma mai a capo. Ci sono troppe Penelope relegate al ruolo di dote matrimoniale. Ci sono troppe Elena, valutate solo per la bella presenza. Ci sono troppe Andromeda incatenate e troppi Perseo che credono di essere l’unica soluzione. Ci sono troppe Medusa stuprate e accusate di esserne responsabili. Ci sono troppe Antigone che ribellatesi sono rinchiuse in una grotta.

I dati dell’Istat parlano chiaro. Nel nostro Paese, 1 donna su 2 non lavora. Nel 2021, nel nostro Paese, sono state uccise 119 donne. 104 erano femminicidi. Prima di festeggiare, pensiamo ai diritti. Prima di pensare ai diritti, pensiamo a chi non li ha. Prima di pensare ancora di pensare a chi non ha diritti, cerchiamo di capire che genere di società vogliamo. Siamo lontani dall’essere tutti uguali, per cui smettiamola di riempirci la bocca di belle parole e rimbocchiamoci le maniche.

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