Una guerra di narrazioni distorte e strategie fallaci
Un lungo anno è trascorso dalle 4:30 del 24 febbraio 2022, quando la Russia di Putin ha intrapreso un’azione di occupazione militare nell’Ucraina di Zelensky.
Un’invasione che aleggiava nell’aria sin dal 2014, quando sempre Putin aveva invaso le regioni di Donbass e Crimea. Il 2015 fu un anno decisivo, i due presidenti firmarono gli accordi di Minsk, sotto la sorveglianza del OCSE, Organizzazione per la Cooperazione e Sicurezza Europea, della Germania e della Francia.
Con quegli accordi cessavano i fuochi, i tumulti, cessavano di lottare fratelli ancestrali. Cessavano le possibilità, per Putin, di ricostituire la democrazia dell’URSS slava.
Sette anni dopo, esattamente il 24 febbraio dell’anno scorso, Putin ci riprova e questa volta accampa nuove scuse per ricostituire l’immenso sogno di essere il protettore delle terre russe, di divenire lo Zar che riporta in auge e ripristina “L’errore più fatale del XX secolo a livello geopolitico” – affermava il presidente russo in merito al disciogliendo dell’URSS.
Una guerra iniziata un anno fa, che si è fatta forte di due anni di pandemia, due anni in cui Putin ha potuto lasciar macerare la sua vigna propagandistica ubriacando il popolo russo con motivazioni via via più pungenti, sempre più rievocative.
La prima su tutte, rievocare i drammi e i traumi della Grande Guerra Patriottica, la guerra della Russia contro il nazista Hitler. Putin, invadendo l’Ucraina, intendeva denazificare una terra sorella dagli estremisti che la macchiano e la infamano. Un’accusa che ha fatto capo al battaglione Azov, l’indipendente unità costellata di estremisti di destra. Una piccolissima unità, un’erba che non fa l’intero fustino. Un’unità che è stata smantellata, così come la motivazione di Putin, che per altro cade in infondatezza. L’Ucraina di Zelensky è quanto di più lontano dal nazismo, con un presidente ebreo che ha visto avi e parenti perire e lottare nei campi di concentramento.
Caduta tale ignominia, Putin si è rifatto ad altre tre motivazioni: l’Ucraina avrebbe infranto gli accordi di Minsk, con i quali il presidente russo pretendeva l’autogoverno del Donbass, prima che le truppe russe abbandonassero il campo, ma Kyiv, invece, chiedeva che le forse di Putin avrebbero dovuto prima lasciare il campo e poi si sarebbe istituito un referendum per lasciare al popolo la scelta.
Una seconda motivazione era dettata da un’infondata paura che coinvolgeva tutto l’Occidente e che fa capo all’Alleanza Atlantica: la Nato. Il timore di Putin si materializzava in un ipotetico controllo degli Usa e dell’Europa del terreno ucraino per spostare truppe, neanche fossimo sul tabellone di Risiko. Non considerando le tempistiche e le burocrazie per completare l’adesione nella Nato, il presidente russo ha drammatizzato un’eventualità, che dopo un anno, si concretizza in mera difesa.
L’ultima motivazione, caduta come le precedenti, è un attacco all’identità di un popolo che di ucraino non avrebbe nulla, la matrice è unica: russa. Un terreno frastagliato di satelliti di gloria dell’URSS disciolta tra le radici di una Nazione fantasma. Il fantasma di una proclamata indipendenza dal 1991 che va strappata, per riportare le cose com’erano e con l’alleanza della Bielorussia Putin credeva di poter ricostruire almeno l’URSS slava, con una guerra lampo. Ma il lampo non c’è stato, perché la Resistenza ucraina, di quel popolo orgogliosamente ucraino ha infranto i piani di vanagloria di uno Zar decaduto.
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Una guerra di vite martoriate, di crimini, di aberrazioni, di contraddizioni
Kyiv, ore 4:30, Zelensky non è l’unico a svegliarsi, è l’intera città che, invece, di restare a letto è costretta a nascondervi sotto. Nelle strade si sente una sirena urlare un pianto di avvertimento, perché il cielo si riempie di missili e la terra di macerie.
La Russia ha iniziato la sua guerre e l’Ucraina risponde con la Resistenza. Con una maglietta a maniche corte, verde militare, Volodomyr Zelensky guida il suo popolo nella lotta armata per difendere una terra che presto inizierà a vivere non solo l’orrore, ma il puro martirio. Kherson, Zaporizhzhia, Donetsk, Mariupol, Mucha, Azovstal, l’isola dei Serpenti, Lysychanks, Olenivka, Lugansk, tutti luoghi cardini nei quali, in questo lunghissimo anno, si sono consumate vite, incubi, morti, stupri, violenze, attacchi, difese, perdite, battaglie, vittorie, sconfitte.
100 mila i soldati ucraini morti, almeno il doppio quelli russi, ma per Putin poco importa. 30 mila i civili ucraini morti. Vite strappate, vite derubate, vite cancellate.
Una guerra che ha mostrato diversi lati, diverse strategie, diverse offensive. La più atroce: lo strupro di guerra. Bucha ha messo alla luce gli orrori dell’esercito russo ai danni del popolo ucraino. Ogni città invasa ha subito un trattamento similare, i prigionieri, gli ostaggi vengono mutilati, torturati, seviziati.
Le donne? Le donne condannate a portare in grembo il seme del nemico. Partorire figli del nemico. Non bastano le bombe, non bastano le pallottole, non bastano le macerie. Cancellare il popolo ucraino generando attraverso di esso nuove forze del popolo russo.
Un sistema atroce che in guerra si riaccende come una spora sopita. Una spora di muffa che in poco tempo si diffonde, e aumenta in crudeltà e disumanità. Quelle donne stuprate, però, sono condannate, perché nessun paese confinante permette loro di strappare quel seme malvagio. È considerato omicidio, è vietato abortite.
Ma altre violenze sono state perpetuate non solo dalla Russia, anche dall’Ucraina. La difesa non sempre è innocente. I crimini di guerra sono sempre bilaterali. Non bastassero le torture ricambiate, l’Ucraina ferisce il suo stesso popolo, una parte di esso: le donne transessuali. Donne che non potevano lasciare il paese, come le conterranee cis. Quelle donne per lo stato sono uomini, soprattutto in tempo di guerra. E in tempo di guerra ogni uomo deve servire, poco importa se non si riconosce nel sesso di nascita, poco importa se in quella guerra la persona non sente alcun patriottismo, perché prima di abbandonare la protezione della sua terra è la sua terra che a lungo ha cessato di proteggerla.
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Una guerra di sanzioni, di limiti e di gocce cinesi
La guerra tra Russia e Ucraina ha presto acceso l’antico terrore dell’Occidente: l’allarme guerra mondiale. Se non c’è due senza tre, non c’è europeo, non c’è cittadino del mondo che non viva l’ipotesi di una terza guerra mondiale come un’ansia costante, una profezia nascosta in un angolo, un evento già preannunciato.
La narrazione costante, di questo lungo anno, è stata improntata a scovare la miccia, a trovare il tassello che insieme agli altri avrebbe dato luogo allo scenario più macabro. Una terza guerra mondiale che questa volta non si sarebbe combattuta in trincea, né scovando ideologie estreme e campi di concentramento. Questa volta, la prossima volta, è il nucleare a farla da padrone e il nucleare, in questo caso, sarebbe l’unico superstite. Per un anno intero, sono stati interpretati i segni, le dichiarazioni, perfino le foglie di the e i fondi di caffè.
La realtà è ben diversa, il mondo è già in guerra, ma in una guerra nuova, fatta di divisioni e di manipolazioni. Di equilibri molto precari, egoisti, narcisistici. Se la Cina si accorda con la Russia è per un nemico comune, così come l’Iran e la Corea del Nord. Ma nessuna azzarda a conciliarsi, ognuna ha il suo. Il versante opposto è costituito dalla vecchia Alleanza, con le sue grane, con i conti da fare con la crisi economica, con la pandemia, con l’accoglienza di migranti dall’Africa, dall’Ucraina, da ogni dove. Il bacino della fertile Europa si inaridisce a ogni ora che passa e in questa morsa ogni parte del globo è sull’attenti.
Putin ha mostrato come tenere in pugno un continente intero: ha spento la fiamma del gas e così dei riscaldamenti nelle case, dell’energia. Il mondo risponde con le sanzioni, le multinazionali lasciano il campo e Putin risponde rivendendo il gas alla Cina, creando sostituti, persino per McDonald’s.
La guerra tra Putin e Zelensky ha lasciato emergere tante verità scomode, fra tutte che si ignorano le guerre finché non le abbiamo in casa. Palestina, Teheran, Kabul, Bagdad, Afghanistan, Taiwan sono solo alcune delle realtà che abbiamo dimenticato. Di fuochi che lasciamo bruciare, di vite che non piangiamo. Tornando la guerra in Europa ci si è resi conto che è l’uomo a essere in guerra, ma si piange soltanto quando la pallottola arriva alla nostra spalla.
Questa guerra potrebbe durare ancora a lungo, le presidenziali russe del 17 marzo 2024 sono distanti ancora un anno e per quella data Putin vorrebbe riuscire nel suo intento. La Resistenza continuerà nella sua difesa, ma nel frattempo, cosa impariamo come umani? Cosa facciamo come umani? Nei primi mesi di questo conflitto leggevamo, scrivevamo, commentavamo. Si è smesso i panni dei geopolitici per prendere in mano la crema solare e poi votare, lavorare, ricominciare a ignorare.
Oggi è un anno da quelle 4:30 del 24 febbraio 2022, tutti abbiamo un pensiero per ciò che è accaduto. Forse, ogni giorno, dovremmo pensare a quell’orario, 4:30, alle 4:30 di ogni vita interrotta per la mano della guerra, per la sete di potere, per chi dimentica di essere umano. Un pensiero, almeno quello, per essere un po’ umani e fare in modo che quelle vite non siano morte invano.