La questione dell’ identità e della differenza è alla base di ogni discorso che, come da rituale, l’otto marzo impone.
Insieme al coro di protesta contro la negazione dei diritti, nel mondo si reitera la denuncia delle discriminazioni di genere, innanzitutto attraverso il linguaggio. Sono le parole che ci ricordano quanto sia ancora lungo il corso del cambiamento.
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Identità e genus
Come un abito, un atteggiamento, una maschera di pirandelliana memoria, il genere si “indossa”.
Perché mentre le differenze di sesso sono un dato biologico, acquisito alla nascita, il genere è genus, l’appartenenza a un’origine. Un tratto distintivo che separa l’insieme dei caratteri essenziali per cui qualcosa è simile o differisce da altre.
Pertanto il genere è dato, costruito. Ma, nella storia, il genere è anche stato “fatto indossare”. Così, la differenza biologica è stata il pretesto per l’elaborazione della grammatica della discriminazione, basata su costruzioni sociali.
Le distanze tra “cose da maschi” e “cose da femmine” si avvertono in tanti piccoli indizi, a cominciare dai giochi infantili: quelli per femmine, quelli per maschi. E quando le bambine diventano donne, a distinguerle è il linguaggio. Tra gli aspetti più “sessisti” c’è, ad esempio, l’uso dei titoli professionali e istituzionali.
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Le parole per “dire” il genere
Ma il mondo cambia se e quando cambiano le parole.
In Corpi che contano, la filosofa americana Judith Butler afferma che le differenze di genere non sono altro che atti recitati, abiti da “indossare” appunto. Sono comportamenti trasmessi attraverso il linguaggio che “produce” ciò che dice.
La prospettiva dominante (ed eterosessuale) procede in base ai criteri di identità e differenza. Si offre così il modello di ciò che è “normale” e “naturale”, escludendo ciò che è “diverso”, “innaturale”.
Se io appartengo a un determinato genere, sarò ancora considerata come parte dell’umano? L’ “umano” si estenderà sino a includermi nella sua presa? Se io desidero in un certo modo, mi sarà concesso di vivere? Esisterà uno spazio per la mia vita, sarà essa riconoscibile agli altri, dai quali dipende la mia esistenza sociale? (J. Butler, La disfatta del genere)
Per questo, l’otto marzo deve diventare l’occasione per riflettere su come è dal linguaggio stesso che si producono quelle dicotomie da cui nasce ogni tipo di discriminazione.