La febbre da shopping delle donne (leggi l’articolo: Sofia Trevisan e il venditore disobbediente) è spesso al centro della speculazione mediatica di cinema e riviste di settore. Non tutti, però, sanno della tassa rosa che grava sui loro acquisti.
La Pink Tax è una maggiorazione dei prezzi su articoli destinati all’utenza femminile. Prodotti per la cura personale, abbigliamento, giochi e accessori: questo ampio paniere di beni dedicati al “pubblico rosa” ha un costo maggiore rispetto alla variante maschile. Eppure, i brand e le funzioni sono gli stessi.
I numeri della Pink Tax
A parità di lavoro svolto, le donne percepiscono in media uno stipendio inferiore rispetto agli uomini. Ciò nonostante, beni e servizi di cui usufruiscono costano di più.
Nel 2015, il Department of Consumers Affairs di New York pubblicò lo studio “From Cradle to Cane: The Cost of Being a Female Consumer”. Si tratta di un’analisi comparata delle versioni maschili e femminili di circa 800 beni di largo consumo. Quanto emerge è che le donne newyorchesi spendono (rispetto agli uomini):
- il 7% in più per giocattoli e accessori;
- l’8% in più per l’abbigliamento;
- il 4% in più per l’abbigliamento infantile;
- il 13% in più sui prodotti per la cura e l’igiene personale;
- l’8% in più sui prodotti per la cura della casa.
Un anno dopo, un articolo del Times denunciò una massiccia applicazione della Pink Tax da parte dei grandi magazzini londinesi. Tra i prodotti interessati ci sono rasoi, profumi, canottiere bianche di cotone e addirittura articoli di cancelleria.
La Pink Tax in Italia
Nel nostro Paese, l’incoerenza più evidente riguarda il costo degli assorbenti igienici. In Italia sono considerati beni di lusso, tassati al 22%. Per contro, i rasoi da barba sono tassati al 4%, al pari di latte e pane.
Il 21 dicembre 2012 una sentenza della Corte Europea intervenne in materia di differenze di genere in campo assicurativo. Il risultato è che le Rc auto per le guidatrici italiane sono aumentate del 4,4%. I loro premi, infatti, sono stati innalzati, portandoli allo stesso livello dei premi spettanti agli uomini. Eppure, secondo le statistiche dell’epoca, le donne italiane avevano un profilo meno rischioso.
Un trattamento base shampoo-piega-taglio ha un costo significativamente più elevato se a farlo è un parrucchiere, piuttosto che un barbiere. Ad incidere, oltre alla lunghezza del capello, sono maschere e prodotti utilizzati in fase di lavaggio e asciugatura, senza il consenso dell’interessata. Rendere questi ultimi opzionali, permetterebbe alle clienti di decidere, seppur marginalmente, il prezzo finale.
Alle donne sembrerebbe quindi destinata quella fetta (più costosa) di mercato, dedicata ad un pubblico più “delicato”, selettivo e invogliato a spendere per attenersi a canoni estetici imposti dalla società. Auspicarsi un futuro equo o gender-free, dunque, pare essere ancora una lontana fantasia.